Roberto Murru

Sono infinite le storie che si possono raccontare intorno alla pesca in apnea. Molte, quelle personali, descrivono, più o meno velatamente, l’attaccamento a questo sport e come la pas- sione sia di stimolo per superare ostacoli e avversità. Ad esempio, come a tanti di noi sarà capitato, per piacere o necessità, a un certo punto della nostra vita il centro dei nostri interessi si sposta, geograficamente. Affrontiamo così nuovi scenari, rimoduliamo le nostre abitudini e scopriamo che tutto può cambiare ma non il rapporto col mare, in particolare con la pescasub. Così è stato anche per Roberto Murru, cagliaritano, classe 1960. In tenera età accompagnava a pesca i fratelli maggiori, entrambi subacquei, mai sulla strada dell’eccellenza, ma abbastanza attivi da suscitare curiosità in primis e ammirazione in secundis. In spiaggia o sugli scogli, aspettava il ritorno dal ma-re dell’uno o dell’altro. Spazi temporali per immaginare, fantasticare, sognare, alla fine dei quali festeggiare per le catture che a un bimbo, comunque, sembravano eccezionali. Tutto ciò fino a dodici anni circa, poi i primi tentativi estivi con la fiocina, contro qualunque pesce o animale marino, sempre sotto il vigile controllo di un fratello quando non di entrambi. Ma i 16 anni, anche se agognati con dolore quasi fisico, arrivano e Roberto, almeno d’estate, trasportato dal suo motorino, si muove, dalla Sella del diavolo a Calamosca, armato di un fucile a molla e pinne Rondine. Poveri polpi, muggini e seppie, ma il peggio doveva ancora venire. Infatti, il futuro Roby Murru, aggiorna l’attrezzatura con fucili nuovi e una muta Technisub Super Calipso da 5 millimetri con cerniera.
A questo punto cosa succede? Niente di particolare, quando potevo andavo a pesca, con profitto, ma gli anni passano e in men che non si dica mi ritrovo, ventunenne, in Sicilia, con base a Palermo, per lavoro. Giusto il tempo di orientarmi e raggiungo il mare, coperto di neoprene e col dente avvelenato. Ter-rasini, San Vito lo Capo, il Biscione, Petrosino erano le località che frequentavo. Trovai una situazione un po’ diversa da quella sarda, con pochi pesci da tana e acqua velata soprattutto in superficie. Forse per questo virai all’a-spetto per dentici e leccie ma anche corvinoni di 2-2,5 chili all’agguato perchè molto diffidenti. Autodidatta, mi spingevo fino a 30 metri. La costa sicula, anche se diversa, è molto affascinante. Non c’è granito e il grotto è mol- to basso con l’acqua sempre abbastanza torbida, almeno nei primi metri, insomma, non è cristallina come in Sardegna e per via di questa caratteristica ero costretto a molti tuffi a vuoto.
Un ricordo particolare? Di sicuro una cattura fatta a Capo Rama. Generalmente entravo da terra. Era il 18 aprile del 1996, avevo 36 anni. Prima giornata dopo il fermo biologico di 45 giorni. Arrivo in un posto che conoscevo come le mie tasche: faccio qualche tuffo di adattamento e aspetti in acqua bassa. Vedo che non c’è pesce e decido di uscire dal capo, lungo una risalita da 50 fino a 18 metri con corrente forte. Ero in superficie e notai che la mangianza era impazzita. Capisco che qualche predatore è nei paraggi. Ventilo e pinneggio per i primi metri, poi scendo a foglia morta, avvitandomi per avere una visione a 360 gradi e dare al pesce l’idea di un corpo inanimato; giusto per incuriosirlo. Mi poggio sul cappello, rimango immobile e osservo la mangianza per capire da che parte arriva il predatore. Le castagnole avevano scatti improvvisi, in tutte le direzioni. Strano, normalmente la mangianza si schiaccia sul fondo o si apre. A un certo punto da lontano vedo una sagoma, in alto, che velocemente si dirige verso me. Le castagnole si aprono e riconosco un’alalunga sui 10-12 chili. Però rimaneva fuori gittata. Risalgo, fiducioso perché la giornata mi sembra buona. Ventilo e riscendo dopo 3-5 minuti. Sempre sul cappello. Osservo il pesce foraggio e in alto, in superficie, spostato 25 metri dalla mia verticale, c’è un pesce fermo in corrente, argenteo e lunghissimo. Non capivo... Risalgo e mi dirigo verso l’obiettivo ma l’acqua in superficie è velata e non mi permette di riconoscere subito il pesce. I battiti a mille! A un certo punto la sagoma si definisce: è un’aguglia imperiale. Miro in testa col mio Omer T20 da 86 con doppio elastico e il pe-sce fugge velocemente con un’asta da 7 mm a doppia aletta. Sfila la lenza del mulinello, 50 metri. Quindi pinneggio verso di lui per non fare resistenza. A un certo punto smette di scappare ma salta fuori dall’acqua, due tre salti. Poi di nuovo in fuga e io dietro. Alla fine si ferma, lego il fucile al pallone, recupero da lenza, l’afferro col braccio sinistro e col destro tengo l’asta. Il combattimento è finito.
Che rapporto hai con l’agonismo? Mi è sempre piaciuto l’ambiente agonistico. In Sicilia partecipavo da spettatore per via di lavoro e famiglia. Rientrato in Sardegna nel 2001, ho frequentato Air Sub e il mondo apneistico. Mi sono iscritto al club nel 2010 per un corso di apnea agonistica col mitico Mauro Meloni, insieme a Matteo Spiga, Luca Fenza, i fratelli Pilia (Massimo e Alessandro) e Marco Secci, ex campione sardo, e altri. Conseguito il brevetto, ho partecipato alle selettive di tre campionati sardi di pesca in coppia, con risultati non troppo brillanti. Miglior prestazione in una selettiva a Vignola, organizzata dal circolo sub La Tana di Aggius: pur non conoscendo e non avendo preparato il campo gara mi sono piazzato al 5° posto. Era il 2011 ma ricordo ancora il ricco carniere, di saraghi, occhiate e verdoni. Il giorno presi il pesce più grosso, una corvina di 1,2 chili. Oggi non pratico più la pesca agonistica, ma le competizioni mi piacciono e da tre anni faccio apnea agonistica, per la Polisportiva Air Sub Apnea Competition. Nel 2017 ho partecipato a un corso di apnea dinamica con gli istruttori Andrea Sanna, Sergio Cardia, Stefano Murgia, Paolo Irde e Renzo Fadda. È un’attività che serve anche per la pesca.


Una cattura memorabile? 24 aprile di 3 o 4 anni fa a Capo Ferrato, sotto il faro. Su un fondale di 18 metri. Arrivo di pomeriggio, da solo. Esco da terra, dalla spiaggetta degli Eucaliptus, a Porto Pirastu. Esco con l’Aquascooter e mi dirigo verso il faro. L’acqua era pulita ma un po’ velata in superficie, con una leggera corrente da Nord. Percorro circa mezzo miglio e nel frattempo controllo tane conosciute sui 20 metri, alla ricerca di corvine che non sparo perché troppo piccole. Mi avvicino ancora al faro, ancoro l’Aquascooter al fondo, lo pedagno. Faccio un tuffo e noto due ricciolette sui 3 chili l’una, che anziché scappare si mettono sotto una cigliata per un attimo, poi si allontanano. Un comportamento strano, tipico di chi teme un predatore. Intuisco che c’è “qualcosa” in caccia e mi concentro alla ricerca del grande predatore. Mi dirigo verso la parte esterna più a nord della secca, dove la corrente è maggiore. Da sopra vedo la specchiata di un pesce molto largo e mi avvicino con cautela. Ventilo e scendo, intorno ai 10 metri provo a fare un breve aspet-to con richiami: normalmente, per stimolare le ricciole, sfrego i denti. Il pe- sce era fermo in corrente con la testa appena in giù. Visto che non si avvicina con i richiami, faccio un agguato strisciando sul fondo il più possibile e così arrivo a tiro, a tre metri dall’arpione, miro al cervello. Il ricciolone si è sollevato un attimo, ma subito si è girato di fianco e con la pancia all’insù. Poi riprova timidamente a scappare e sono costretto, comunque a lavorarlo per altri venti minuti. L’asta infatti non aveva trapassato il cranio. Sono tornato a casa stanco ma felice.
Hai una tecnica preferita? No, direi che pesco un po’ in tutti i modi e mi adatto alle situazioni. Oggi esco da terra e frequento spesso la zona della Costa Verde. Solitamente entro in acqua da terra e solo di rado esco in gommone, col mio barcaiolo o con amici. Uso un’attrezzatura ormai collaudata. D’inverno una muta con giacca da 9 mm e pantalone da 5 liscio, spaccato. Pinne in carbonio da 25, non rigidissime. Uso un fucile mono e doppio elastico Merou in carbonio da 85 e 110. Ma mi capita di usare anche l’arbalete in legno, con impugnatura ergonomica, un modello auto costruito in tek e mogano, da 95. Con questo cerco i pesci all’aspetto in tana e all’agguato, sfruttando la mia tecnica che mi permette di avvicinarmi moltissimo alle prede.
Cosa pensi delle aree marine protette? Per come sono organizzate qui, sono decisamente contrario; sono troppo vaste e il sub è discriminato, in ogni occasione. Per il resto, ormai pescare nelle nostre coste è sempre più difficile. Co-me dicevo mi adatto, ma le catture sono sempre meno. Sono scomparsi anche i polpi, forse perché più smaliziati. Per non parlare della diffidenza dei muggini.
Svelaci qualche trucco. Chi avesse il piacere può visitare il canale youtube, Roby Murru-Apnea, dove pubblico i video di molte mie uscite a pesca e dove si possono ricavare informazioni specifiche sulla mia azione di pesca. Comunque, come molti pescasub sanno, le zone migliori sono dove c’è maggior presenza di castagnole. E poi, mi piace la pesca in tana perché riesco a capire quali sono le pietre migliori da controllare. Ad esempio i lastroni accatastati con fondo sabbioso o ghiaioso, di solito sono tane frequentate da muggini e spigole. Controllo con attenzione il tipo di grotto: se alto con spaccature verticali è facile trovare cernie, corvine e saraghi. E comunque gli spacchi migliori sono quelli che hanno una via di fuga sulla sabbia.