Questa è la tecnica di pesca che più mi sta a cuore e della quale parlo davvero poco. Sarà perché ho un approccio tutto mio, quasi viscerale, o perché trovo che rispecchi l’estasi della pescata, quando tutto viene messo a dura prova: fili, canne, nodi, mulinelli, braccia, fisico, gestione dell’imbarcazione, interpretazione degli strumenti di bordo, condizioni meteo, luna, maree, correnti, scarroccio, deriva… e chi più ne ha più ne metta. È una tecnica che permette di pescare ogni specie, ma riusciamo a essere centrati solo con diversi piccoli, grandi, accorgimenti. Senza questi, anche con le attrezzature giuste, possiamo catturare qualcosina, ma non essere del tutto performanti. In queste pagine vi propongo la mia versione di slow jigging. Per alcuni risulterà strana, forse troppo “precisa”, ma con l’esperienza ho capito che nulla nella pesca va lasciato al caso. Questa favolosa tecnica mi è stata insegnata da un grande della pesca in Sardegna. Lui concede poche “dritte”, per cui mi sono sentito molto lusingato, all’epoca, e ho fatto tesoro delle cose che mi ha permesso di carpire. Ho sempre avuto una grande fame di imparare da chi veramente sa più di me. Rilevo facilmente il talento nelle persone e lui, devo dire, ha come un sesto senso, possiede la linea laterale dei pesci. Potrei scrivere un articolo solo su di lui e gli aneddoti che me l’hanno fatto capire. Da allora ho intrapreso un percorso nello slow jigging molto lungo e abbastanza silenzioso, fatto di tante ore passate a capire alcuni aspetti molto oscuri e difficili: abitudini di alcune specie, momenti della giornata migliori, l’influenza delle correnti e delle maree, la luce del sole… Non vi nego che mi sono scervellato e, in alcuni casi, mi sono fermato durante fasi di grande attività in pesca a costo di perdere quegli attimi. Questo per capire il perché stesse succedendo una determinata cosa. Ho provato a sostituire un jig per vedere se il pesce mangiasse lo stesso, ho cambiato colore, forma, peso, ho cercato di capire perché il giorno prima nello stesso punto, pur avendo i pesci sotto il gommo- ne, non riuscivo a farli mangiare. Oppure ho provato a pescare per un bel po’ sullo stesso spot senza avere risultati, fino a far arrivare il momento di attività dei pesci. Ho fatto tesoro di tutto, di ogni segnale che il mare mi ha dato. Ho interpretato e valutato bene ogni sensazione per tirare fuori piccole sfumature e ora sono arrivato al mio “movimento lento”. Ogni giorno provo a capire sempre di più, su questa tecni-ca pazzesca, e c’è sempre qualcosa di oscuro da scoprire, è proprio questo che mi affascina. Quando facciamo un’uscita a slow jigging può succedere di tutto. Molto di ciò che ho sentito dire su questa tecnica non rispecchia il mio attuale modo di praticarla. Io non pesco più con canna sotto l’ascella, se non in fase di combattimento. Non pesco su uno spot per due o tre cale e poi, via da un’altra parte: se il pesce non ha mangiato vuol dire che non c’è? Non calo un jig solo per il suo colore o per il suo peso. Non uso sempre lo stesso diametro di fili. Non uso gli assist corti. Non calcolo “un secondo” ad ogni giro di manovella. Non faccio mezzo giro o un quarto di giro alternato in maniera costante. Tutta questa pappardella non fa più per me. Quando salgo a bordo e pesco a slow jigging lo faccio ben sapendo che dovrò attingere dal mio za-ino d’esperienza e costanza, per portare a termine la giornata, senza aver lasciato nulla al caso. Con o senza il pesce a bordo.
“Io non pesco più con canna sotto l’ascella, se non in fase di combattimento. Non pesco su uno spot per due o tre cale e poi, via da un’altra parte: se il pesce non ha mangiato vuol dire che non c’è?
La canna
La canna da slow jigging deve avere delle specifiche imprescindibili e deve, grazie alla sua azione, imprimere, insieme a tutto l’apparato pescante, il giusto movimento all’esca. Per tanto, la canna deve avere un’azione parabolica, con una sensibilità estrema, tale da far capire cosa succede al nostro slow jig. Deve essere un tutt’uno col nostro avambraccio, parte integrante del nostro corpo, grazie alla quale interpretare ogni movimento per un contatto diretto col jig. Due sono le fasi e i differenti utilizzi della canna: fase passiva e fase attiva. Facciamo calare il jig controllando la discesa col dito sul filo (fase passiva) poi, una volta arrivati sul fondo e se non è arrivata la mangiata prima, chiudiamo la leva o la manovella, solleviamo la canna (fase attiva), diamo la possibilità di far muovere in discesa il jig (fase passiva), nuovamente alziamo la canna e facciamo un giro di mulinello (fase attiva). Attenzione però, l’azione non è in funzione di un tot. preciso di centimetri come mezzo giro o 1/4 di giro. Stabiliamo invece, sentendo il movimento della canna e del jig, quanto filo recuperare: alle volte sarà mezzo giro ma altre volte sarà meno o più, o addirittura nessun giro di manovella perché il nuoto passivo e attivo è perfetto, oppure perché vogliamo star lì…
Così facendo si evita un movimento costante e monotono del jig, ma, invece, si imprime all’esca una sequenza incostante, variabile, stuzzicante. Con la canna sull’avambraccio, l’azione risulta perfettamente sotto controllo, con un’impareggiabile gestione del jig e un’aumentata sensibilità, altrimenti limitata e sorda, se la canna si manovra sotto l’ascella. In inglese si dice “push the rod out” (spingere fuori la canna da pesca). Questo movimento, fatto in alcuni casi corto e in altri più lungo, ci permette di far lavorare la canna al 100% e non al 30-50. Altro aspetto importantissimo è la componentistica e gli anelli che devono essere necessariamente con pietra in sic o, ancor meglio, torzite. Questo perché utilizziamo trecciati molto sottili e ci vuole una pietra resistente che non si deteriori. Preferiamo una canna leggera e maneggevole, che rispecchi le nostre necessità, ma soprattutto che faccia bene il suo lavoro. Una canna che duri nel tempo e non ceda se sottoposta ad angolazioni un po’ rischiose. Quando abbiamo necessità di potenza, non dobbiamo avere paura di forzarla, perché la nostra sicurezza in pesca non va mai messa in discussione, pena la sconfitta con super pesci come grosse cernie, ricciole e tonni… sì, perché capiteranno anche quelli e non po-co! I materiali dell’impugnatura sono anche essi importanti, ad esempio quando utilizziamo i guanti, il sughero è consigliabile rispetto all’eva, perché fa molto più grip mentre a mani nude l’eva è imbattibile. Vediamo bene l’impugnatura e il grilletto, la comodità è un aspetto importantissimo. Grazie all’azienda Borderline Fishing sono riuscito a raggiungere questo livello di gestione perfetta del jig: leggerezza, comodità e potenza pazzesca grazie ai materiali ricercati e alle lavorazioni di altissimo livello dalle quali nasce la Ptr, canna con caratteristiche perfette per questa tecnica. Preso atto dell’azione della canna da slow jigging, abbiamo una base per la ricerca, per capire che jig vogliamo gestire e quindi il range della canna. Il mio consiglio è di evitare escursioni ampie. Ad esempio: una canna con range da 80 a 300 g, non sarà mai la canna giusta per questa tecnica. Bisogna preferire range modesti, come da 100 a 150 g, se vogliamo essere davvero performanti, non più approssimativi.
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