Matteo Scano

Passione, passione e passione. Questa la chiave per avere successo e come vedremo, anche per risalire la china dopo spiacevoli accadimenti.

Molti di noi, oggi appassionati, si sono avvicinati al mare e poi alla pesca, dopo timidi approcci in giovane età, al seguito del genitore, spesso pescatore, altrettanto spesso semplice cultore alle prime armi delle attività outdoor. Così è stato per me, ad esempio, ma l’esperienza è comune a tanti, condivisa anche da Matteo Scano, cagliaritano, 38 anni. Il porto canale, incubatrice di pescatori, per gran parte dei giovani dell’area metropolitana, ha forgiato Matteo a suon di oratine e pescetti pescati con la cannetta dalla banchina. Poi, come spesso avviene matura un allontanamento che dura però solo qualche anno. Allo scoccare dei 16 anni, Matteo fa amicizia con un subacqueo sportivo che in breve, ma dopo insistenti inviti, lo convince a vestirsi di muta e pinne e seguirlo sott’acqua per provare l’emozione di muoversi nel fluido e nella natura del mare. Si arma di un fuciletto e a Torre delle Stelle, nel sottocosta, fulmina qualche polpo e altri pescetti. Quindi, ripete timidamente l’approccio alla pesca, solo che al posto della canna questa volta preferisce il fucile.

Vuoi proseguire? Sì! A 18 anni, quindi nella maggior età, stringo un’amicizia con Alessio De Silvetri, un compagno di studi con un cognome importante. Convinto di trovarmi di fronte al figlio di un mito, di un campione che seguivo morbosamente sulle riviste specializzate (Mondo Pesca in primis), gli chiedo se Bruno fosse il padre. Apprendo invece che lui era il nipote, ma, vista la sua disponibilità, gli chiesi di intercedere perché mi sarei offerto umilmente e molto volentieri come barcaiolo. Benché non credessi nei miracoli, un bel giorno, finalmente, arriva una telefonata. “Domenica ho bisogno di un barcaiolo, sei libero?” Certo, rispondo io, ma… domenica è Pasqua! Una situazione imbarazzante per me e per i miei, abituati a trascorrere in famiglia la festività, ma anche un’occasione che non si poteva rifiutare, e così… Così, quella domenica di Pasqua, Bruno e io partimmo presto per Pula, naturalmente con la sua macchina e il suo gommone al traino.

Matteo con una bella tripletta di corvine vittime di un solo sparo fuori dalla tana su un banchetto di una trentina di esemplari.

Com’è andata? Alle 7:00 scarrelliamo in uno dei pochissimi scivoli liberi della Sardegna, sconquassato come del resto quasi tutti gli altri, a Cala d’Ostia. Però il tempo è bello, ventilato e con belle onde. Ci dirigiamo verso Chia e rientriamo a fine giornata, con un sacco di saraghi e un’oratona.

Vi siete rivisti? Sì, possiamo dire che c’era del feeling e infatti mi coinvolse ancora qualche volta.

Quindi? Un bel giorno mi chiama, mi chiede la disponibilità e del tutto inaspettatamente, mi dice di portarmi anche l’attrezzatura. Da quel momento abbiamo fatto coppia fissa, anche se io ero ancora in fase di studio e apprendimento.

Come ti sei trovato? Lui era abbastanza impegnativo, ma dalla mia parte avevo un certo interesse per la profondità. Quindi, anche se assolutamente lontano dalle sue performance, lentamente sono maturato, anche perché Bruno, pur essendo a suo agio anche oltre i 40 metri, non era un fissato e se c’era da pescare a 10 metri il pesce bianco, perché le condizioni lo consigliavano, pescava in acqua bassa. E io, naturalmente, in quelle occasioni mi immaginavo quasi al suo pari.

Due bellissime orate pescate in un'altrettanto bellissima giornata invernale al Poetto.

Raccontaci un aneddoto! Con Bruno? Ok, un ricordo abbastanza recente e molto divertente. Era d’estate a Porto Corallo. Io, freddoloso come pochi, indosso una 5 millimetri, giacca e pantalone, ma questa è una divagazione. Pescavamo in una tana di corvine che lui conosceva molto bene, sui 30 metri. C’era da lavorare perché era certo che ce ne fossero ma forse, anche per l’insistente attività di Bruno in quel varco, si spingevano in anfratti irraggiungibili. Così decisi di aggirare l’ostacolo e cercare altre aperture in quel momento più adatte. Trovo un buco, abbastanza stretto ma esattamente in corrispondenza delle corvine ammassate in un angolo per allontanarsi dal fucile di Bruno che le insidiava. Riesco a sparare le più grosse, un gran cappone e poca altra roba. Risaliamo, e consegnamo il pescato a Massimo Spano, il barcaiolo, il quale esclama: “Cavolo! Bruno, questo giovane ha pescato più di te!”. "Ma come? Non è possibile!". Risponde il campione, mentre verifica la differenza del pescato a mio favore. Allora, risalito a bordo, si dirige velocemente al largo e s’immerge, con me al seguito, in un nuovo spot, più profondo, a 42 metri. Io non potevo arrivare laggiù, ma lui, in men che non si dica, spara una cernia sui 10 chili e riequilibra le sorti della giornata: aveva pescato di più! Purtroppo poco dopo questo episodio ci siamo allontanati, fondamentalmente per il mio lavoro.

Parago scovato nella tana di una cernia poco oltre i 40 metri, a Carloforte.

E poi? Poi è successo quello che è successo. Bruno non c’è più e io mi sono chiuso in una sorta di rifiuto all’immersione che è durato 5 o sei mesi.

La ripresa? Beh, grazie agli amici che mi hanno incoraggiato la passione si è risvegliata e ho ripreso a immergermi con Andrea Pizzi e Cristian Corrias, attualmente.

L’agonismo? Solo di striscio. Ho partecipato a qualche gara… qualcuna l’ho anche vinta, ad esempio la seconda edizione de “La laguna espone” a Sant’Antioco, con Bruno e Cristian, ma è un mondo complesso che non mi appartiene e quindi continua a essere lontano dai miei pensieri.

I tuoi posti preferiti? Diciamo che spazio nella metà più meridionale della Sardegna, da Oristano a Arbatax.

Sei un profondista? Moderato! Mi piace scendere ma mi sono imposto un limite a 40-42 metri, in variabile.

L’aspetto e l’agguato? L’aspetto mi annoia. Vince la tana! È una tecnica più varia e dinamica. Mi fa pensare e immaginare di più. Cercare i pesci, stanarli, mi diverte proprio tanto.

Un pesce grosso? Il più grosso l’ho pescato a Sant’Antioco, d’estate, forse luglio, nel 2016. Bruno doveva aggiustarsi la muta, era messa male e gli dava fastidio. Così decide di portarmi su un punto per un tuffo, un ciglio di granito a 31 metri con la base sulla sabbia a 34, mentre lui si sarebbe sistemato la muta. La giornata era spettacolare, senza vento e senza onde, con acqua trasparente e visibilità a 30 me-tri. Scendo e individuo subito il gradino. Di fronte c’era una pozza di sabbia bianca che per contrasto metteva in risalto la sagoma di un pesce, una cernia. Mi avvicino, pronto per sparare, in caduta, ma vedo un’altra cernia che le passa davanti e s’intana, forse impaurita. Metto il pedagno e risalgo. Racconto l’accaduto a Bruno e rivado giù. La tana, illuminata dalla mia lampada si è rivelata un cavernone, esattamente come l’aveva descritta Bruno e quella che a prima vista mi è sembrata una pietra era una cernia. Sparo frontalmente, senza difficoltà e la estraggo: 27,5 chili.

Il cernione a cui fa riferimento il testo, arpionato a Sant'Antioco nello spot di Bruno.

Un pesce che ti ha fatto sudare? Sempre una cernia, nel Golfo di Cagliari, due anni fa. Ero con Massimiliano Barteloni. La monella si è incastrata tra le rocce e nonostante i ripetuti tentativi, non sono riuscito a venirne a capo. Sono dovuto tornare il giorno dopo con Gianluigi Angius e un lungo raffio che ho usato come leva per smuovere il pesce e poi, finalmente, estrarlo.