Un pescatore, una storia. Quella di Mariano è senz'altro particolare, longeva e senza crisi, dove il professionismo si esprime nella sua accezione più alta.
Parte da Tempio, cittadina gallurese a 600 metri circa di altitudine e ai piedi del Limbara, la storia di Mariano Satta, classe ’62. Oggi è un professionista affermato nell’arte fotografica, ma soprattutto, dopo una pluridecennale esperienza con le più importanti aziende di forniture subacquee, è tester e ambassador di C4 Carbon. A sette anni si trasferisce a Olbia, a seguito della famiglia per impegni professionali. Nella capitale del nordest isolano Mariano si ambienta benissimo, anche al mare, visto che tra i parenti poteva disporre di una casetta a Murta Maria, un quartiere periferico sorto poco a sud dell’aeroporto e attraversato dalla statale 125, che si allunga fino alle rive del golfo di Olbia dove principia la penisola di Capo Ceraso.
Ci racconti gli inizi? All’epoca avevo 8 anni e mi fu regalato un fuciletto da pesca. Altri tempi, allora non c’erano ancora limitazioni e nonostante la giovane età potevo andare per mare, armato, a caccia di pesci. L’esordio fu col botto. Presi una spigola enorme. Era giugno inoltrato. Con mio cugino Graziano, un po’ più grande di me, andammo in corriera a Porto San Paolo. Vestiti solo di maschera e pinne e un maglione di lana infeltrito, entrammo in acqua diretti verso la prima isola, uno scoglietto che dall’alto assume la forma di una conchiglia. Naturalmente eravamo su basso fondo e pinneggiando senza un logico percorso scorsi in lontananza la sagoma di un grosso pesce. Dopo un breve ma non frenetico inseguimento raggiunsi l’animale fino a riconoscerlo: una spigola da paura. Col mio fuciletto puntato percorsi gli ultimi metri e forse un po’ avventatamente sparai. Centro perfetto. L’arpione passo di parte in parte proprio dietro la testa. Era gigantesca. Solo a casa scoprii che pesava addirittura otto chili. Ma nel frattempo c’è stato un altro avvenimento. Nell’emozione della cattura e nel gioco successivo, io e Graziano perdemmo l’autobus del ritorno. Così, allora era anche una moda, ci inventammo il viaggio di ritorno in autostop. E sapete chi caricò i due ragazzini con l’ingombrante e insolito trofeo? Johnny Dorelli e Catherine Spaak. Erano affascinati e divertiti. Vollero sapere tutto circa la cattura e tentarono anche di sottrarci il pesce, naturalmente pagando generosamente. Ma il problema era che senza il cadavere, nessuno ci avrebbe creduto . Era indispensabile avere le prove della cattura. Due bimbi e una spigolona da record non sarebbero state certificate, forse, neanche da una foto a colori. Finì che ci mollarono a Porto Istana e grazie a un altro “passaggio” approdammo a casa.
Quindi? Quindi, infogato ai massimi livelli, non perdevo occasione per andare in mare. Mio padre era il supervisore e mio fratello più grande quello che mi supportava e sopportava. Sta di fatto che ero sempre in macchina con gli adulti. Con loro esplorai le spiagge vicine, spingendoci anche alle Bocche.
Il salto di qualità? A 15 anni, tra un carniere e l’altro, conobbi Salvatore Vitale, un fortissimo agonista di Olbia, pluricampione, che mi promosse suo assistente. Così diventai un “porta pesci” affermato. Una figura che oggi non esiste più, ma che allora mi permise di frequentare molti pescatori capaci dai quali imparai moltissimo. E infatti mi affacciai all’agonismo, ma era un mondo troppo oneroso per le mie tasche perennemente sgonfie. D’altra parte, la vita offriva altre distrazioni, molte pericolose, come la droga. Erano gli anni ’70 e bisognava prendere una decisione. La mia fu quella di dedicarmi allo sport, in particolare alle arti marziali.
Come andò? Beh, non ero una schiappa, fui bronzo agli italiani assoluti di Taekwondo.
E la pescasub? Esauriti gli stimoli della palestra, era il 1989, sentì la necessità di fare un bilancio e dedicare più tempo a me stesso e l’ambiente elettivo non poteva essere che il mare e la pescasub. Seguì un decennio molto intenso con infinite uscite in mare e catture di ogni tipo.
Poi arrivò C4? No. Prima ancora, alla fine degli anni ’90, entrai in contatto con Marco Bardi, un mito, un grande di quel periodo, tutt’ora in auge per le sue attività di giornalista, consulente, nonché dt della nazionale italiana di pescasub. Un vero e proprio mentore, per me, che mi propose di fare il tester per Omersub e Sporasub.
Ti sei trovato bene? Sì, un’avventura ancora eccitante, culminata per dinamiche aziendali, alla corte dell’immenso Marco Bonfanti, patron C4 carbon. Pensa che fu il primo al mondo a fare le pinne in carbonio e Pelo, il mitico Umberto Pelizzari, il primo a indossarle.
Torniamo alla pesca, una cattura? Golfo Aranci, novembre scorso. Una bella giornata, giusto un po’ di corrente in acqua. Mi immersi per scattare qualche foto e inaspettatamente notai una cernia in candela. Mi avvicinai, in agguato e sparai senza nessuna difficoltà. Come la stavo “finendo” arrivò dal nulla un branco di lampughe, molto probabilmente attirate dal sangue. Ero ancora impegnato, con la cernia sottobraccio, in superficie, ma riuscì comunque a caricare il fucile, alla prima tacca. Così sparai nel mucchio infilzandone una di 4-,5 chili.
Una preda grossa? Senz’altro una leccia di 33 chili. Era novembre, una giornata tipica autunnale con cielo velato, coperto a tratti. Una giornata tranquilla nel, golfo di Olbia. Ero da solo, e scorrevo verso Capo Ceraso con tuffi continui tra gli 8 e i 18 metri. Vidi la leccia che sfilava dietro uno scoglio. Mi calai sul fondo e la intercettai in agguato. Trascorsero una trentina di secondi prima dello sparo. Il pesce era un po’ distante ma lo beccai sulla linea laterale. Accusata la botta, e non poco, la leccia oppose comunque una forte resistenza, vuotando quasi il mulinello. D’altro canto non potevo forzare per via dell’arpione col mono aletta, colpevole, in altre occasioni, della lacerazione delle carni. Quindi dovetti gestire il recupero dalla superficie, ma fortunatamente andò tutto bene.
“Prima ancora, alla fine degli anni ’90, entrai in contatto con Marco Bardi, un mito, un grande di quel periodo, tutt’ora in auge per le sue attività di giornalista, consulente, nonché dt della nazionale italiana di pescasub”.
Qual è la tua tecnica preferita? Tutte e nessuna. Pratico la pesca a mio avviso più adatta per quel momento.
Ti reputi un profondista? No, assolutamente. Ripeto, faccio quello che serve in ogni circostanza. La mia quota limite è di 30 metri. Non perché non sia in grado di andare più giù, semplicemente non lo reputo necessario. Per pescare bisogna vedere i pesci, non cercarli negli abissi.
Un aneddoto? Beh, il delfino Pinna bianca. Era il 2000 e naturalmente incontrai il mammifero in mare, a Figarolo, l’isolotto a sud del promontorio di Capo Figari. Era un animale censito, riconoscibile appunto per via di una macchia bianca proprio sotto la pinna dorsale. Era curioso e giocoso. Più volte abbiamo nuotato insieme e più volte ci siamo immersi sul fondo. A volte mi stava davanti e creava turbolenza con la coda… un gioco. Purtroppo l’hanno ritrovato su una spiaggia, a Bunthe, senza vita e senza apparente motivo. Che tristezza!
Le aree marine protette? Sono stato in Spagna a Palma di Maiorca, anche con Alberto March, il campione europeo di pescasub. I fondali ricordano i nostri di trent’anni fa. Sono gestiti con giudizio, con politiche completamente diverse dalle nostre. Le aree protette sono piccole e limitate anche nel tempo, ruotano, si spostano e in ogni caso sono interdette a qualunque attività. Ma soprattutto sono vigilate.
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