La Saboga di Sardegna
di Marco Casu e Marco Leo
La pesca sportiva della Saboga, in Sardegna è aperta tutto l’anno, esclusi i mesi di aprile e maggio. La misura minima per il prelievo è 25 cm, con un massimo di 2 kg o 10 esemplari per pescatore. Chiariti questi punti, ho organizzato, quale appassionato pescatore in acque dolci e di pesci particolari, una “spedizione” alla saboga nel grande lago Mulargia e nel lago Medio e Basso del Flumendosa, con la finalità di effettuare catture e prelievi di tessuto a fini scientifici, su richiesta di Marco Casu, dell’Università di Sassari, esperto ittiologo e appassionato pescatore in acque dolci, e di Alberto Belfiori, che ha documentato l’attività di pesca.
Tecnica
Diciamo subito che pescare le Saboghe può non essere semplicissimo. La pesca tradizionale nei grandi laghi prealpini del nord d’Italia prevede tipicamente l’uso di lunghe canne armate di specifiche amettiere, oltre alle tecniche di pesca spinning. Noi per insidiarle abbiamo usato tecniche di light e ultra light spinning, adoperando esche quali micro rotanti, mini jigs, spoon con amo singolo e/o piccole ancorette, ma pure piccole gomme montate su testine piombate, tutte esche di peso non superiore a 5 g. Abbiamo adoperato canne da spinning con azione regular o poco fast, lunghe 2-2,40 m per pesca light e ultra light, con potenza di lancio limitata a 8-10 g, accoppiate a mulinelli di taglia 2000-2500 a basso rapporto di recupero e a bassa capacità di filo (shallow spool), con in bobina del filo trecciato sottilissimo 0.6 pe, equivalente ad un diametro di circa 0.12 mm, più il classico finalino invisibile di fluorocarbon Ø 0.23 mm, o inferiore, di lunghezza di circa 0,8-1 m. E’ possibile anche insidiare le Saboghe con la pesca a mosca secca. L’azione di ricerca delle Saboghe in lago con acque fonde, una volta lanciata l’esca, si caratterizza per l’esplorazione della lama d’acqua in verticale (artificiale in caduta) e dal successivo recupero lineare, regolare, lento o lentissimo. Se le Saboghe sono in frenesia alimentare sono possibili attacchi rapidissimi sull’artificiale in caduta; ottimi in questo caso gli spoon color argento o dorato. Si può lanciare direttamente a vista sulle bollate in superfice, abbondanti all’imbrunire o, se si ha la fortuna di vedere il passaggio dei branchi, cosa che capita negli affluenti dei laghi artificiali, si può lanciare a vista su di essi per intercettarne il passaggio. Le Saboghe non hanno una vera mangiata da predatori, essendo pesci che si nutrono prevalentemente “setacciando” l’acqua con le branchiospine, ma seguono incuriosite le esche artificiali zigzagandoci attorno in maniera scomposta e nervosa, ma nel contempo cercano di predarla, cosa che in molti casi non gli riesce. Per cui durante il recupero in punta di canna sarà possibile percepire il loro tipico approccio all’esca con timide musate e mangiatine indecise, fino a quando non rimarrà allamata. A quel punto diventa una preda divertente e molto combattiva, veloce nelle fughe e capace di compiere anche salti in superfice, ma sarà purtroppo anche molto facile a slamarsi perché ha una discreta capacità di liberarsi dell’esca. C’è da ricordare che si tratta di un pesce veramente delicato, scarsamente resistente in asciutto e quasi impossibile da tenere in mano perché perennemente agitato. Pertanto per maneggiar- lo si consiglia l’uso di pinze da pesci in plastica e un retino a maglia siliconica per poterlo tenere sempre in acqua. Se si vuole praticare il catch & release, è meglio il contatto a mani nude vista la delicatezza e l’estrema facilità di perdere le scaglie. Noi abbiamo trascorso una giornata diversa in ambiente fresh water, e voi, quando andrete a catturare la vostra prima Saboga di lago?
“Se si vuole praticare il catch & release, è meglio il contatto a mani nude vista la delicatezza e l’estrema facilità di perdere le scaglie. ”.
La scienza
La presenza nei laghi artificiali sardi della “Saboga” è decisamente interessante, sia perché ha origine da popolazioni naturali di Cheppie, bloccate nel loro percorso di ritorno post riproduzione, per via della costruzione di sbarramenti, sia dal punto di vista conser- vazionistico, perché è una delle poche specie autoctone e residenti delle acque dolci sarde, insieme alla bistrattata tro-ta sarda (Salmo ghigii) e alla quasi sconosciuta bavosa di acqua dolce (Salaria fluviatilis). A complicare il quadro ci si mette di mezzo anche la tassonomia decisamente complicata di Agoni e Cheppie. Sinora sono state considerate forme distinte della stessa specie: l’A-gone rispondente al nome latino di Alosa fallax lacustris (Scopoli 1786), e la Cheppia, Alosa fallax nilotica (Geoffroy 1827). Quindi nomi diversi per identificare due diverse “forme ecologiche” della stessa specie. La diagnosi delle due forme di Alosa è basata principalmente sul diverso habitat e sulle caratteristiche etologiche (Agone stanziale in acqua dolce, Cheppia migratrice anadroma) e su alcune caratteristiche morfometriche, come il numero di branchiospine (38–72 per l’Agone, 31–50 per la Cheppia). Per questo motivo alcuni studi recenti tendono a considerare le due forme come specie di- stinte, dandogli il nome di Alosa agone per l’Agone, e di Alosa fallax per la Cheppia. Un vero e proprio nodo gordiano! Detto questo, sia che le consideriamo ecotipi diversi della stessa specie oppure specie distinte si vorrebbe dare una risposta alla questione amletica: le Saboghe sarde sono Agoni o sono Cheppie? Finora li abbiamo chiamati Agoni per comodità e per tipo di ambiente, esportando il sillogismo che, se le popolazioni naturali dei gran-di laghi prealpini sono Agoni, anche i nostri lo devono essere, visto che an-che loro compiono tutto il loro ciclo vitale in ambiente lacustre. La questione non è banale. Infatti l’origine dei “veri” Agoni, quella dei laghi prealpini è collegata ai fenomeni geologici legati alle glaciazioni, durante le quali popolazioni di Cheppie migratrici sono rimaste “intrappolate” nei laghi dando vita a popolazioni stabili, che con il tempo si sono differenziate in Agoni veri e propri. In Sardegna non è stato un e-vento geologico a originare popolazioni “landlocked” di Cheppie, ma attività antropiche (vedi lo sbarramento del corso naturale dei fiumi), e la scala temporale è decisamente più breve, decine di anni contro decine di migliaia di anni. In altri termini, è bastato poco meno di un secolo per far sì che le Saboghe della Sardegna si “trasformassero” da Cheppie in Agoni? Per provare a dare una risposta a questa domanda occorrono indagini più accurate della semplice analisi morfologica, che sembra essere poco dirimente nella discriminazione delle due forme, e servirsi della genetica, che invece si è rivelata promettente nel separare Cheppie da Agoni. In questo contesto, con il mio gruppo di ricerca e in collaborazione con Marco Leo, ho iniziato a fare dei campionamenti di tessuto di individui di questo iconico pesce nel lago Mulargia e nel lago Medio e Basso Flumendosa, al fine di estrarre il DNA e paragonare delle sequenze con quelle presenti in letteratura e capire finalmente se la Saboga è una Cheppia o un Agone. Alla fine di questo studio forse saremo in grado di dare un nome latino alla nostra Saboga. Non rimane che convincere l’amico omonimo Marco a portarmi a campionare le Saboghe, non solo quelle del Mulargia e Flumendosa, ma anche quelle dell’Omodeo, che hanno anche un’altra interessante caratteristica: provengono dallo sbarramento di un fiume, il Tirso, che sfocia a Ovest nel Mar di Sardegna, a dif- ferenza del fiume Flumendosa, che sbocca a Est nel Tirreno. Siccome studi recenti ipotizzano che le popolazioni migranti di Cheppie del Mar di Sardegna appartengano a una specie diversa da quella Tirrenica, Alosa algeriensis, cosa sarà accaduto alle Saboghe dell’Omodeo? Saranno differenti dalle Saboghe degli sbarramenti del Flumen- dosa? Ma questa è un’altra storia…
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