Una storia come tante, quella di Fabio. Nato vicino al mare, innamorato del blu e sofferente per il distacco. 33 anni, sposato e padre di una bambina, ancora in fasce. Ha frequentato spiagge e scogliere, belle, ricche e mutevoli, anche insidiose. Il maestrale, quel vento che profuma l’aria di Iglesias quando, veloce, arriva dal Golfo del Leone, ingrossa le onde e come le fiamme nel bosco, sconquassa il quotidiano. Fascino, disagio e rispetto, ecco cos’è il mare, soprattutto visto dall’interno. Una visione che Fabio matura nel tempo, da quando, a circa 6 anni, ispezionava i fondali vestito di solo slip e maschera. Raccontaci. Ho fatto anche piscina, ma è solo a 10 anni che è iniziata la pesca. Mia nonna aveva una casa a Portixeddu e d’estate trascorrevo le vacanze con le mie cuginette, ma soprattutto seguivo zio Carlo, con maschera e pinne, fino a Capo Pecora. Lui pescava, io registravo. Poi grazie a una fiocina riempivo il retino che mi cingeva la vita, con ogni sorta di pinnuto. Il rientro era da ridere, avevo le cosce rosse per i segni delle spine.”. Quando sei diventato autonomo? C’è stato il momento del Saetta B, un fucile a molla, allora lungo come me, che per armarlo era necessario uno sforzo enorme. Era rumoroso è già caricandolo faceva scappare i pesci. Piano piano, però, mi sono organizzato. Un giorno a Capo Pecora, avevo il fucile attaccato alla sagola. M’immergo su una lastra che nascondeva saraghi grossi. Sparo, ma l’asta del Medistenn s’incastra. Tento di liberarla, però, senza successo. Risalgo e mi rendo conto che la sagola era perfettamente perpendicolare su un fondo di 18 metri. Mio zio, attento, mi fa i complimenti. In quel momento ho preso coscienza delle mie forze e mi sono liberato di certi tabù. Mi sono sentito, appunto, autonomo. Avevo 16 anni.
Poi? Poi, naturalmente ho continuato a pescare, con mio zio, ma anche con amici. Di lì a poco c’è stato il periodo delle ragazzine e l’esperienza lavorativa in continente, a Belluno. A 20 anni, finito di lavorare il pvc, rientro in Sardegna a riabbracciare quel mare che mi è mancato molto e iniziare un altro percorso professionale, alla Carbosulcis. Ero turnista, quindi non mi mancava il tempo libero. Automunito, pescavo da terra e qualche volta, invitato da amici, in gommone. Uscivo da Porto Paglia e seguivo un percorso che mi portava verso Portoscuso e Nebida. Sempre a razzolo.
Poi, c’è stata una svolta? Sì, la svolta è arrivata grazie a un amico che mi ha consigliato di fare un corso di apnea. Allora era molto attivo Roberto Maureddu a Portoscuso. Un’esperienza molto interessante e formativa, mi ha aperto la mente, soprattutto per la sicurezza. Poi ancora la respirazione, la pesca in coppia. Ho ripetuto a breve l’esperienza, sempre grazie a Maureddu, questa volta con un corso specifico sulla pesca subacquea. Finché sono arrivato alla corte di Pelizzari grazie a un interessantissimo stage, al Setar. Il gommone ha chiuso il ciclo del cambiamento. Potendomi spostare, la mia organizzazione è cambiata totalmente e Carloforte è diventata la mia seconda casa, Carloforte e Sant’Antioco. Scendevo già a 40 metri ma pescavo fino a 25 metri. A me piace tuttora la tana e razzolare, sono uno che si adatta. Anche l’agguato non mi dispiace. L’aspetto invece non mi entusiasma, però se capita, se ne vale la pena... Ricordi una cattura particolare? Ricordo volentieri il recente parago di Carloforte. Era fine maggio, un dopo Covid. Il giorno ero solo con mio babbo, affidabile barcaiolo. L’acqua era ancora molto fredda. Spezzo il fiato in pochi metri e subito scorgo e fulmino un sarago da chilo. Bell’inizio… Razzolo alla ricerca di altri saraghi ma… niente. Mi sposto in una secchetta tra i 19 e 25 metri, vicino al Corno, nella speranza che i tuffi più fondi mi portassero a qualche dotto o cernia. Però, acqua sporca e… nulla! Vista l’ora, era circa mezzogiorno, il taglio freddo a 17 metri e il maestrale in aumento, un po’ stufo, decido di andare via. Salgo in gommone e mi levo l’attrezzatura, ma, in navigazione passo sopra uno dei miei punti a 28 metri, che di solito dà grosse corvine.
“Risalgo e mi rendo conto che la sagola era perfettamente perpendicolare su un fondo di 18 metri. Mio zio, attento, mi fa i complimenti. In quel momento ho preso coscienza delle mie forze e mi sono liberato di certi tabù.”.
Mi vesto di nuovo, m’immergo, acqua pulita e immediatamente a 15 metri circa, la sagoma di un pesce, forse un dentice, girottava nelle mie pietre. Risalgo per non spaventarlo, considerato che non mi aveva visto. Prendo un 85 roller e scendo, ma del pesce nessuna traccia. Eppure non mi ha visto! Risalgo, riscendo: la tana delle corvine... vuota. Guardo in giro e scorgo un po’ di sospensione. Mi avvicino e in un piccolo anfratto…
Accendo la torcia e il parago è lì, mi guarda di fronte, forse incuriosito anziché spaventato. D’istinto sparo e lo colpisco dietro le branchie. Sfortunatamente s’imparrucca il sagolino ed è ora di risalire. Mio padre mi passa un altro fucile e di nuovo giù. Dall’alto vedo il parago che esce dalla tana e si allontana, senza asta, solo con la sagola che lo passa da parte a parte. Pinneggio e arrivato a tiro lo doppio. Riesco a liberare l’asta e risalgo. 3,8 chili, non male per un parago a quelle quote. Oggi come sei organizzato? Dipende dal periodo. D’inverno vado a spigole all’agguato, ma anche all’aspetto, nel torbido, con molta zavorra, quando c’è sospensione di alghe e sabbia, naturalmente su basso fondo, massimo 8 metri. A Carloforte, principalmente, nel versante meridionale, oppure da Spiaggia di Mezzo a Gonnesa, verso Buggerru, Scivu e fino a Piscinas. Vesto una muta artigianale, meravigliosa, pennellata addosso, con 7-8 millimetri di neoprene sul petto e sulla schiena, mentre il pantalone è da 5 e i calzari da 2. Uso una maschera Nano di Cressi con lente ampia, una Sporasub col volume ridotto per i tuffi profondi. Pinne Edge Cetma composites, durezza M. Il fucile è uno Spike roll di Conte sub da 83, monoelastico, molto maneggevole nella schiuma e nel torbido, dove c’è la necessità di brandeggiare. Inoltre è molto preciso. Porto con me anche un 85 autocostruito, da me e Giacomo Cubedddu, soprattutto lui, in legno, roller, monoelastico da 17. Pugnale, torcia e orologio sono i complementi. D’estate invece vado perlopiù a cernie, corvine, saraghi grossi, ma soprattutto a cernie. Uso una muta da 3 mm per tutto. La maschera ha un volume ridotto per sprecare meno aria. Immancabili il pedagno, il pugnale e la torcia. La zavorra non supera i tre chili.
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