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Quello della pesca in apnea è un contesto quanto mai generale, che offre la possibilità di dedicarsi ai tanti aspetti più o meno specifici che a questa disciplina in qualche modo si ricollegano. Anni fa, nelle pagine di questo giornale, io stesso mi sono dedicato alla narrazione di qualche bella pescata o esperienza di mare, piuttosto che alla descrizione di alcuni dei miei itinerari più amati o, ancora, a quella di alcune fra le tecniche più comunemente praticate o maggiormente efficaci. Ho trattato anche argomenti apparentemente più scollegati rispetto a quelli “classici” della pesca subacquea: peculiarità biologiche delle prede più frequentemente insidiate o il rapporto tra la stessa scienza e l’esperienza. Uno degli argomenti che più mi appassiona tuttavia, vuoi per la mia formazione professionale che per la passione stessa che mi accompagna da oltre trent’anni, è quello relativo alla sostenibilità del sistema di cattura del pescatore apneista sportivo: una sorta di etica che non solo contraddistingue il comportamento del pescatore ormai maturo da quello del neofita, ma che fa della pesca in apnea, soprattutto se così eticamente condotta, il sistema di cattura (forse davvero l’unico) più rispettoso dell’ambiente.
Niente avviene per caso sott’acqua
La pesca sportiva può essere praticata con una molteplicità di tecniche, in molte delle quali mi sono innumerevoli volte cimentato. Sono centinaia, più che decine, le uscite di surfcasting, di rock fishing o di beach ledgering che, con ogni condizione meteo e lungo tutte le coste dell’isola, ho avuto il piacere di affrontare. La stessa traina, pure con qualche buon risultato, mi ha ugualmente appassionato, sempre con quel generale piacere di perfezionare la conoscenza di una tecnica e soprattutto con la voglia di riuscire a raggiungere l’obiettivo primario per il pescatore sportivo, quello della cattura della preda ricercata. È tuttavia la pesca subacquea la disciplina che, a mio personale avviso, rappresenta più di ogni altra quella sfida più diretta, priva di inganni, tra il pescatore ed una preda, libera nel suo ambiente naturale; la tecnica dove la casualità incide veramente poco e dove sono più che altro l’esperienza, la costanza e la conoscenza dell’ambiente marino, quegli elementi che determinano un successo e da cui non si può prescindere. E’oltretutto quella che mi ha regalato le più grandi soddisfazioni, e grazie alla quale ho potuto esplorare ogni angolo della mia Sardegna, sempre alla ricerca di quel tratto di costa che con quella precisa condizione potesse offrirmi un incontro degno di nota. La pesca in apnea, lo dice il nome stesso, è praticata contando esclusivamente sulle proprie capacità fisiche e mentali: non si tratta di una mera prova di forza, quanto piuttosto di resistenza ai propri limiti e alle avversità in un ambiente, spesso ostile, in cui più che mai siamo soli. Trattenere il respiro, immergersi a profondità in alcuni casi notevoli, magari con mare mosso o forte corrente, per avvicinare una preda che potrebbe arrivare da qualsiasi parte (nella migliore delle ipotesi), sono difficoltà che necessitano di allenamento fisico tanto quanto di una grossa dote di perseveranza. E questo in un mare sempre più povero, indebolito e incapace di auto rigenerarsi. Le possibilità di avvicinare una preda sono effettivamente minime e riuscire poi ad andare a segno con l’unico colpo a disposizione le riduce ancora di più.
Una pesca selettiva
Le attrezzature contano, ma in misura decisamente meno importante rispetto a quello che spesso si pensa. Non sarà certo un fucile capace di sparare a 5 metri a garantire la cattura, quanto la capacità del pescatore di avvicinarsi ancor più alla preda. Alle difficoltà oggettive legate all’azione di pesca, si sommino le limitazioni, tanto normative che oggettivamente pratiche, che rendono ancor più difficile questa attività. A differenza di una gran parte di altri sistemi sportivi di cattura, quella subacquea può essere praticata solo in determinate fasce orarie (dall’alba al tramonto), in certi casi solo a determinate distanze dalla riva, oltre ad essere naturalmente vincolata alle condizioni meteo marine spesso impossibili da affrontare. A ciò si aggiunga il divieto assoluto di praticare in certe zone (in primis nelle aree marine protette), contrariamente a quanto accade con le altre discipline di pesca, sia professionali che sportive, con la lenza, dalla riva o dalla barca (generalmente possibili dietro pagamento di una quota). Ma qual è la tecnica più selettiva? Se alle difficoltà di cattura sopra accennate, si aggiunge la possibilità di scegliere se catturare o meno una preda individuata ed avvicinata, selezionandone oltretutto la taglia, non si evincono altre motivazioni, diverse da quelle economiche, per penalizzare in tal modo la pescasub. E chi, più di un diretto osservatore dell’ambiente sottomarino quale l’apneista, ha la possibilità di avere un’istantanea di ciò che avviene sott’acqua, della presenza o meno di certe specie, della loro abbondanza, degli ambienti in quel momento frequentati e del loro comportamento in risposta a stimoli esterni? Da considerare che la normativa vigente, in questo frangente, è quanto mai ferrea ed attenta (giustamente, aggiungerei, se più che altro fosse valida per tutte le categorie): per mia personale esperienza, mi è capitato spesso, all’uscita dall’acqua, di essere sottoposto ai dovuti controlli a cui, ci tengo a dirlo, sono sempre risultato regolare, sia per totale del pescato concesso che per misura minima delle prede. Gli stessi controlli, che io stesso auspico, probabilmente sono l’unico deterrente efficace contro le illegalità nello specifico settore. Riconosco che siano molti i casi noti in cui le regole non vengano rispettate: attività di prelievo in zone non consentite, durante orari vietati o con l’ausilio di autorespiratori, o più comunemente pescate oltre il limite dei 5 kg a pescatore previsti (o di un pesce di peso superiore). Ed a prescindere dalle esagerate (parere sempre personale) restrizioni in questo senso, non si può evitare di pensare a tutte quelle altre discipline sportive evidentemente ed oggettivamente più impattanti, anche se pare non siano così ritenute da chi le leggi le emana. In definitiva, se pure si equiparassero tutte le attività di prelievo non professionale e le si immaginasse ugualmente praticate eticamente e nel rispetto delle norme vigenti, credo di poter affermare senza dubbio che la pesca subacquea rimanga la sola disciplina ad impatto ambientale davvero basso, in quanto capace di selezionare la specie, la taglia ed il numero, garantendo la sopravvivenza di un sistema naturalmente equilibrato come quello marino.
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